Con le parole si può giocare, ma non si scherza. Sono roba seria. Infatti, uno dei primi segni di un potere totalitario e liberticida è proprio il controllo del linguaggio. Lo sa bene Vittorio Feltri che delle parole ne ha fatto la sua vita, e che il 31 ottobre torna in libreria con “Fascisti della parola. Da “negro” a “vecchio“, da “frocio” a “zingaro“, tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca“. Edizione Rizzoli.
«Fateci parlare come mangiamo. Fateci essere semplici, chiari, diretti autentici. Noi vogliamo essere liberi e non si può essere liberi soffocando la parola con la scusa di un perbenismo dei costumi che puzza tanto di ideologia rimestata“.
Con le parole si può giocare, ma non si scherza. Sono roba seria. Infatti, uno dei primi segni di un potere totalitario e liberticida è proprio il controllo del linguaggio. L’imposizione della censura di alcuni termini non è pratica che riguarda il passato, anzi, è più attuale che mai. Più andiamo avanti e più regrediamo in questo ambito. Più diventiamo moralistici, smarrendo tuttavia morale ed etica, più ci concentriamo sull’uso di determinati vocaboli, facendone una malattia.
Così si è data vita alla battaglia più stupida, vana, insulsa e folle della nostra storia: quella al dizionario. Oggi non si può più dire “negro” al negro né si può più dire “zingaro”, “rom” o “nomade”. Non si può dire che uno è “cieco”, semmai è un “non vedente”; “sordo”, al massimo “audioleso”. Non si può dire “spazzino”, ma solo “operatore ecologico”; né “bidella”, ma solamente “operatrice scolastica”. Non si può dare del terrone al terrone mentre è corretto dare del polentone a un polentone. E guai a dire “frocio” o “finocchio”, a meno che tu stesso non sia omosessuale, in tal caso diventa lecito.
Per non parlare della repulsione diffusa nei confronti dei sostantivi maschili. Se aggiungi l’astina alla vocale “o”, se declini tutto al femminile, allora sei una bella persona, altrimenti vieni etichettato quale maschilista tossico e pure farabutto.
Il politicamente corretto applicato al linguaggio secondo Feltri è il male del secolo, ed è giunto il momento di dire basta, di tornare a parlare come mangiamo.
L’autore di “Fascisti della parola”
Vittorio Feltri è nato a Bergamo e vive a Milano, dove lavora da oltre mezzo secolo. Attualmente direttore editoriale de «Il Giornale», ha esordito a «L’Eco di Bergamo» come critico cinematografico. Poi ha fatto il cronista a «La Notte» di Nino Nutrizio e al «Corriere d’Informazione» di Gino Palumbo. È stato a lungo inviato speciale per il «Corriere della Sera». Ha diretto «L’Europeo», «L’In- dipendente», «Il Giornale», «Il Borghese», il «Qn», («Il Resto del Carlino», «La Nazione» e «Il Giorno»). Ha fondato e diretto «Libero». Scrive sempre, ed è probabile lo faccia persino quando dorme.

Leggere mi stimola e mi riempie. L’ho sempre fatto, fin da piccola. Prediligo i classici, i romanzi storici, quelli ambientati in altre epoche e culture. Spero di riuscire a condividere con voi almeno parte dell’impatto che ha su di me tutto questo magico universo.