Saggio
Marietti Editore
16 settembre 2021
cartaceo, ebook
128
Prendete le prime venti righe delle Avventure di Pinocchio di Collodi. Inseritele sul web e chiedete a un traduttore automatico la versione in inglese o in cinese, in russo o in arabo. Poi fate il percorso al contrario e provate a ritradurre il testo in italiano. L'effetto sarà sorprendente, da molti punti di vista, e spesso straniante.
Questo libro tenta l’esperimento con cinquanta diverse lingue straniere. Come si modifica, dopo questo transito, la prima pagina di Pinocchio? Come e quanto il testo originale viene tradito dall’automatismo della macchina? Un semplice gioco offre lo spunto per una riflessione sugli strumenti che utilizziamo abitualmente e sul nostro sforzo per districarci nella babele delle lingue che contraddistingue il nostro paesaggio umano.
“Tanto tanto tempo fa … re! I miei piccoli lettori parleranno subito. No, è colpa tua. C’era una volta un pezzo di legno. In inverno, metterlo in una stufa e camino per illuminare e riscaldare la stanza non era un legno di alta qualità, ma un semplice pezzo da una pila”
Ogni tanto bisogna saper giocare anche con le cose serie e l’agile volume “Un burattino nella rete. Tradurre Pinocchio in rete”, ne è un valido esempio. Questa lettura sa infatti regalarci un sorriso, pur suggerendo, allo stesso tempo, una riflessione molto profonda sui limiti degli strumenti informatici e il valore della traduzione, ossia trasposizione da una lingua in un’altra di un testo letterario.
Il punto di partenza del lavoro di Carola Barbero è molto semplice: prendere l’incipit di un classico della letteratura italiana che tutti, ma proprio tutti, conoscono, ossia “Le avventure di Pinocchio” di Collodi, in 50 lingue diverse, disegnando una geografia linguistica che va dall’Afrikaans allo Zulu, e ri-tradurlo in italiano utilizzando però non un traduttore in carne ed ossa, bensì il programma Google.
È facilmente intuibile che il risultato è particolarmente esilarante; allo stesso tempo, risulta essere anche un esperimento che evidenzia quanto la comunicazione, e la cultura che sottostà ad essa, sia un aspetto di quella capacità di vedere al di là delle parole, di cogliere le sottigliezze e i valori che i termini e le strutture sintattiche veicolano e che le macchine ancora non hanno eguagliato.
Non è un caso che la scelta sia caduta proprio su Pinocchio, un testo che, pur essendo una favola, nasconde molti punti di difficile interpretazione, come viene egregiamente sottolineato nella introduzione dalla curatrice del volume; un burattino che, per il nostro linguaggio corrente, è in realtà una marionetta, un incipit particolare, un protagonista che è un pezzo di legno ma anche un bambino; insomma un testo che “tradisce” le aspettative del lettore, come è un “tradimento” linguistico qualunque trasposizione di un testo in un’altra lingua.
Un vero e proprio esperimento che lascia molto spazio principalmente a due riflessioni: una sulla traduzione letteraria e l’altra sull’uso dei programmi informatici in ambito linguistico.
Per quanto riguarda il primo caso, si può affermare che tutti i lettori, affrontando un testo non in lingua originale, sperimentano lo scarto che esiste tra la versione della lingua in cui è stato scritto e quella in cui viene tradotto. È insito, infatti, nel concetto di traduzione che qualcosa del testo venga perso e non trovi una perfetta aderenza con l’originale, visto che la lingua, costituita da parole e regole grammaticali, è anche il vettore di elementi culturali propri dei popoli che la parlano. Inoltre, il traduttore, pur se cercherà di avvicinarsi il più possibile al significato originale, cercando di superare la barriera linguistica, non riuscirà mai a far coincidere i due testi, perpetrando, dunque, come già detto, una sorta di tradimento.
In relazione all’uso dei programmi informatici per trasporre un testo da una lingua in un altra, invece, il discorso si concentra sull’aspetto semantico, frutto di calcoli logaritmici che non tengono conto del contesto, dell’uso comune di certe espressioni e risultano più adatti per manuali e testi che non esprimono, come dice Barbero.
“ciò che è detto (e che potremmo chiamare il contenuto), ma anche come è detto (lo stile), perché è detto (le motivazioni), a chi è detto (la comunità letteraria di ricezione) e da chi è detto (l’autore)” – Un burattino nella rete
Alla luce di tutto ciò e passando al cuore del volume, ossia alla lettura delle “traduzioni” dalle varie lingue, ci si accorge subito che alcuni vocaboli del testo originale come “capitare” (… un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname), nella maggior parte dei casi vengono tradotti con il primo significato, ossia “succedere/accadere”, diventando così la frase “un giorno questo pezzo di legno è successo nell’officina …”.
Persino il povero Maestro Ciliegia subisce, sia nel nome che nella spiegazione del suo nomignolo, delle strane (e ridicole) trasformazioni, diventando Mastro Cherry, Masto Chiton (in aramaico), Maestro sherry (in arabo), Maestro Bal (in aramaico) e nonno della ciliegia (in igbo). Noi lettori italiani sappiamo che Maestro Ciliegia è così chiamato a causa della punta del suo naso che nell’ originale “è sempre lustra e paonazza come una ciliegia matura”; una ciliegia che, però, in albanese diventa una ciliegia cotta, una ciliegia splendente in Hindi, e per la lingua zulu addirittura il corno del naso!
Per non parlare poi dell’ascia arrotata che egli prende per lavorare sul pezzo di legno e “cominciare a levargli la scorza e a disgrossarlo”. Leggiamo così che l’ascia (che in quasi tutte le lingue è arrotolata) è utilizzata “per rimuovere la pelle e stringerla” (albanese) o “per rimuovere la pietra e ricominciare a sparare” (aramaico); oppure, ancora meglio, in catalano, il Maestro Cirera “ha afferrato il rubinetto arrotolato per iniziare a rimuovere la pelle e intonacarla“, mentre in ebraico “ha iniziato a rimuovere il glib e renderlo fradicio“.
Ridicole sono, poi, le traduzioni di espressioni come “detto fatto” con variazioni improbabili di significato tipo “Non appena non gli fu detto di finire” (bengalese), “Detto appena detto” in coreano, “Non lo disse prima di farlo” (croato) e “Nient’altro da dire che da fare” in filippino.
Così, per aggiungere divertimento al divertimento, in questa giostra di incipit alquanto variegati e poco probabili, ho stilato una mia personale classifica delle versioni più spassose. Al terzo posto, c’è quella dal Malgascio, parlata nel Madagascar, dove si legge “Questo kit è apparso in tempo. Voglio usarlo per fare un leggings”. Al secondo ho messo quella dal somalo, dove tra l’altro si legge che “il fatto è che un giorno questo colpo di pistola è avvenuto in officina con un uomo impuro” e che Maestro Cherry (!) ha preso “la benda incrinata per iniziare a rimuovere il muco e andare avanti”. Sul gradino più alto ho posto la traduzione dall’africano Igbo, per l’accozzaglia di frasi che non voglio svelarvi e che, però, vi invito a leggere!
Chi l’avrebbe mai detto che la prima pagina di un classico di fine Ottocento potesse diventare una lettura così divertente circa 140 anni dopo?