
Narrativa
21lettere
27 maggio 2021
cartaceo, e-book
167

Vincitore del recente National Book Award americano come miglior opera in lingua straniera, In questo romanzo le Olimpiadi arrivano a Tokyo senza fare rumore. Con un uso della lingua dall’eleganza semplice e fluida, Yu Miri, vincitrice del prestigioso premio Akutagawa, pone lo sguardo sulle tradizioni giapponesi e sulle vicende che hanno portato il protagonista a vivere ai margini della moderna società. In questo romanzo le Olimpiadi arrivano a Tokyo. Con un parallelismo tra il protagonista (Kazu) e l’imperatore, nati lo stesso giorno, Yu Miri confronta la vita tradizionale giapponese col boom economico della modernità. In questa storia delicata e profonda vengono rivelate le vicende che portano Kazu a vivere ai margini della moderna società. Raccontata con un uso della lingua dall’eleganza semplice e fluida.
“Semplicemente non sono riuscito ad adattarmi. Sono stato in grado di abituarmi a qualunque lavoro, ma alla vita stessa no. Né alle sofferenze della vita… né alla tristezza… e nemmeno alla gioia.”
È difficile parlare del romanzo “Tokyo – Stazione di Ueno“ di Yu Miri, scrittrice di origine sudcoreana, nata e cresciuta in Giappone, perché, nella sua intensità e umanità, è talmente ben costruito che qualunque cosa si dica non sarà mai sufficiente a far capire il significato, il valore e la bellezza dell’opera.
A voler essere pragmatici e sintetici, si potrebbe riassumere brevemente la trama come il racconto in prima persona dello spirito di Kuzu Mori. Un uomo che in vita ha visto scorrere la storia del suo paese, costretto sempre a lavorare per sfamare i figli, la moglie e gli anziani genitori, e vivendo per anni lontano da essi. Un uomo umile e semplice, che è stato travolto dal dolore e dal rimorso per la morte del figlio maschio e la perdita, in età avanzata, della moglie, finendo, ormai ultra settantenne, tra i senzatetto che stazionano nel parco imperiale di Ueno a Tokyo, fino alla sua morte sotto il “treno per Ikebukuro e Shinjuku in arrivo al binario 2”, proprio nella stazione di Ueno.
In realtà, questa storia, scritta con la tipica pacatezza e dignità orientale, narra molto di più. Innanzitutto perché la storia di Kuzu è collegata alle tradizioni e alla storia recente del Giappone; ma, soprattutto, perché la sua esistenza è stata segnata dalla fatica del vivere, quale risultato di tali tradizioni e di tale storia. Una fatica provata da un uomo che ha sempre sofferto per “il mio essere taciturno, il mio essere un incapace”, per la sfortuna che è sembrata accanirsi su di lui e per il dolore che ha sempre provato.
“il dolore mi trascinava via, il dolore mi portava via tutto...”
E mentre il suo spirito continua a captare la vita, si intrecciano ai suoi pensieri i fatti della Storia, attraverso echi degli annunci radio che riportano terremoti, incendi, calamità e disastri nucleari, e le apparizioni della famiglia imperiale. È proprio nel casuale intrecciarsi della vita della famiglia imperiale con quella di Kuzu (Koichi è nato nello stesso giorno di Hironomiya Naruhito) che si sente più forte l’ingiustizia per una vita trascorsa arrancando in un paese dove c’è povertà e ricchezza, crisi economiche e urbanizzazioni, in un Giappone alla ricerca di una modernità e una pace sociale che non sembra sia mai stata raggiunta (in un certo senso Kuzu critica anche il tentativo di presentare un Giappone migliore con le Olimpiadi del 2020).
Kuzu, come detto, è uno spirito, un fantasma che coglie gli echi della vita che fluisce attorno a lui, nell’ultimo posto che ha frequentato, la stazione di Ueno e il parco che porta lo stesso nome.
Quello di Ueno è uno dei parchi pubblici più famosi di Tokyo. Una spaziosa area verde che, tra alberi di ginkgo e ciliegi in fiore, varie specie di uccelli e il laghetto di Shinobazu, accoglie turisti e giapponesi che camminano, corrono, portano i cani a passeggio, vengono in visita ai numerosi musei e alle varie istituzioni religiose e culturali, e dove una vera e propria comunità di senzatetto cerca di sopravvivere. Questa comunità è il prodotto di una società che la nostra visione stereotipata del paese del Sol Levante fa fatica ad inquadrare.
“Ci sono quelli che sono scappati di notte e si sono volatilizzati quando hanno visto lievitare gli interessi sui debiti contratti con gli strozzini autorizzati, quelli che hanno rubato del denaro o ferito qualcuno e sono stati sbattuti in prigione; e che anche dopo essere tornati in libertà dicono di non poter più rientrare in famiglia. Quelli licenziati dall’azienda, a cui la moglie ha chiesto il divorzio e a cui sono stati tolti sia i bambini che la casa; che si sono abbandonati alla disperazione e sono sprofondati nell’alcol o nel gioco d’azzardo, restando senza un soldo. I senzatetto in giacca e cravatta, sui quaranta o cinquant’anni, che continuano a cambiare lavoro e che, pur frequentando ogni giorno gli uffici di collocamento, non riescono a trovare quello che desiderano, si deprimono e diventano come un guscio vuoto.”
Sono questi, dunque, gli invisibili – di cui le autorità si ricordano solo nelle giornate di sgombero, chiamate la “Cacciata della montagna”, in occasione di visite della famiglia imperiale – gli emarginati, le conchiglie spezzate sulla spiaggia della società.
E tra questi si aggira il più invisibile degli invisibili, ossia Kuzu, che, mancando di corporeità, narra delle sensazioni che capta, circondato da alberi e fiori, dagli spezzoni di conversazioni di chi frequenta il parco, di chi transita in velocità sulle sue stradine, intrecciando i frammenti di vita ordinaria con i suoi ricordi. Ricordi, ad esempio, di quando era ragazzino e lavorava come pescatore; o di quando arrivò a Tokyo, scendendo proprio alla stazione Ueno, accesso dal Nord e primo approdo di chi veniva nella grande città per lavorare, alla ricerca di uno dei tanti posti da manovale per la costruzione degli impianti sportivi per le Olimpiadi del 1964, rimanendo per buona parte dell’anno lontano dalla moglie e dai figli Yoko e Koichi.
Della vita trascorsa lavorando per permettere alla famiglia e ai vecchi genitori di vivere, allontanandosi e annullando la possibilità di conoscere i figli e di vederli crescere, sembra sia rimasto solo la sofferenza e il rimorso, nonché il peso di una vita così vissuta. Il dolore annichilente per le morti del figlio di 21 anni, appena diplomato radiologo, e della moglie a 65 anni, hanno segnato Kuzu nel profondo, rendendolo incapace di vivere una vita normale. Arriva alla fine, quindi, la decisione di lasciare la casa della nipote, figlia di Yoko, che lo aveva accolto, per stabilirsi nel parco di Ueno come senzatetto, fino alla sua morte.
Su tutto questo regna l’incessante pioggia, l’unica cosa che lo spirito di Kuzu percepisce realmente e che aumenta quel sentimento di tristezza e malinconia, che fa sì che la voce di Kuzu rimanga con il lettore anche dopo aver terminato “Tokyo-stazione di Ueno”, poiché lo sforzo di vivere del protagonista suona come un monito:
“Anche se c’è una fine, non finisce.”