
Narrativa
Mondadori
23 ottobre 2018
cartaceo, ebook
178

Mi chiamavo Luca Borgoni, avevo 22 anni. Stavo per laurearmi ed entrare in quella fase della vita in cui ogni giorno si è meno “ragazzi” e più “uomini”, e la domanda “Che cosa farai da grande” si trasforma in “Adesso che fai?”. Sabato 8 luglio 2017 mi avventurai su per il Cervino, in Valle d’Aosta. Era una bella giornata ed era cominciata alla grande. Finì nel peggiore dei modi. Mentre mi issavo su per una parete verticale, le mie mani mancarono la presa. Che volete che vi dica? Andai su e non tornai indietro.
Però mettete via i fazzoletti, questa non è una storia lacrimevole. Non mi importa niente di commuovervi e roba simile, la vita è troppo breve per prenderla per il verso sbagliato.” La storia di Luca Borgoni è una storia vera. Ed è una storia clamorosa. Una di quelle storie che hanno una tale energia interiore da continuare anche quando finiscono. Non a caso sua mamma Cristina l’ha scritta usando la prima persona di Luca. Suo figlio aveva il talento dello sport e una grande passione: la montagna.
A piedi, di corsa, in cordata, con le pelli di foca, in snowboard. Nei rifugi, al fuoco dei bivacchi, vento in faccia sui crinali più esposti. Luca passava gran parte del suo tempo libero a sfidare i monti, la sua palestra naturale e inimitabile. Durante l’incidente sul Cervino si stava allenando per un nuovo, esaltante obiettivo: la scalata del Dhualagiri, una delle vette che guardano noncuranti il mondo da oltre ottomila metri d’altezza. Qualche mese prima Luca aveva vinto un concorso fotografico che metteva in palio quell’impresa guidata da un esperto scalatore professionista. Ma prima della partenza le sue mani avevano mollato la presa sulle rocce del Cervino.
A quel punto, una serie di coincidenze e di segni provenienti da un’altra dimensione fanno scattare un’impresa nell’impresa: portare una foto di Luca sulla vetta del Dhualagiri.
Realizzare il suo sogno. Chiudere il cerchio di una vita spezzata. E nell’ottobre dello stesso anno, un’eroica staffetta di scalatori ha piantato una sua foto sulla vetta tanto agognata, abbracciata da una sciarpa tibetana
“Pronto” dissi “Portami lassù”
Luca Borgoni era un ragazzo di 22 anni che, a differenza di tanti altri, possedeva un’energia e una spinta verso la vita senza eguali. Ragazzo sportivamente dotato, amava profondamente mettersi alla prova, con una risolutezza che esprimeva in ogni cosa facesse: dall’approccio alla montagna, a cui la famiglia lo aveva avvicinato sin da piccolo, agli studi universitari in Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, fino ad arrivare alle varie discipline sportive che, con o senza gli sci o lo snowboard ai piedi, con o senza le scarpette tecniche da skyrunner, ponevano un’unica condizione, quella di non aver limiti.
Luca era anche un ragazzo vivace, un tipo competitivo, spinto dalla fretta di fare, eche amava stare tra la gente, sia che si rapportasse con gli amici più stretti, come Davide, uomo di montagna e compagno di avventure, sia quando si occupava dell’attività di PR nelle discoteche di Cuneo, la sua città natale. Aveva anche un sogno nel cassetto che, con la sua solita determinazione, stava cercando di realizzare: dopo la laurea, avrebbe partecipato alla spedizione per raggiungere la cima del Dhualagiri (la Montagna Bianca), la settima vetta più alta della Terra, con i suoi 8167 metri.
Ma quanto doveva accadere l’8 luglio 2017 era già stato scritto.
In quella giornata di sole estivo, Luca era a Cervinia, dove si era recato insieme ai genitori per partecipare a un Vertical, una corsa su sentieri di alta montagna. Finita la gara, Luca, che aveva ancora energia nel suo giovane ed allenato corpo, si piegò alla determinazione di raggiungere la Capanna Carrel, il rifugio a 3835 metri di altitudine, appollaiato sotto il monte Cervino. Quel rifugio era il canto della sirena per una sfida con se stesso, una sfida che avrebbe segnato l’appuntamento con il destino. Mentre si issava a braccia sulla parete che doveva portarlo al rifugio, una frana di detriti lo investì e Luca precipitò, lasciando nel dolore attonito il padre, la sorella Giulia e la madre, Cristina Giordana.
La notizia dell’incidente si espanse come una macchia d’olio con il tam-tam sui social e sui media, facendo sprofondare un’intera comunità nel dolore. Sul profilo facebook di Luca, Cristina continuò a mantenere, fino a che le fu possibile, un contatto con chi aveva amato Luca, postando quanto il figlio avrebbe voluto dire; lei, figlia di giornalisti, concesse interviste e non permise mai che il dolore oscurasse i suoi sentimenti, tanto da presentare al posto di Luca, poco tempo dopo, la tesi alla sessione di laurea.
Dalla tragedia e dalle esperienze che Cristina Giordana ha fatto nei periodi successivi, è nato “Portami lassù”, un libro a cui le etichette stanno molto strette.
Leggere “Portami lassù” è essa stessa un’esperienza, un immergersi in un mondo di amore ed energia, di forza e di vita. A parlare in prima persona è Luca, presentandosi per quello che è stato, per le sue passioni e i suoi sogni, della sua vita di giovane, spinto “dalla fretta” di fare, di arrivare, dell’impegno nello sport e nello studio, ma anche dei forti affetti famigliari e delle strette amicizie, in particolare di quella con Davide, uno spirito affine che gli camminava al fianco come un angelo custode e con cui aveva instaurato un legame di amicizia fraterna.
Aleggia, nei ricordi del Luca che non c’è più, l’imminente tragedia. La scalata, dopo la gara, verso la Capanna Carrel si attorciglia ai pensieri di quanto ha fatto e di quanto le sue azioni hanno segnato le persone che gli sono state vicine, dai genitori alla sorella ma anche a Davide, l’amico di tante avventure in montagna. Il distacco dal corpo gli permette di sentire, e in un certo senso vedere, il dolore che la sua scomparsa ha provocato; e seppur le parole siano particolarmente commoventi, non è come ci si potrebbe aspettare: non si tratta di un concentrato di dolore e disperazione, ma di una forte emozione positiva per un passaggio ad un’altra forma di esistenza.
Si avvia così una doppia narrazione, ossia quella di quanto avviene nel mondo dei vivi, che è dettata dalla determinazione di Cristina nel discutere la tesi di laurea al posto suo e dalla promessa di Davide di portare una sua foto in cima al Dhualagiri ,e quella relativa alla nuova esistenza di Luca, che si trova a misurarsi con un nuovo tipo di energia, il Uari, Uari, una forza che altro non è se non l’Amore, che gli permette di comunicare con le persone a cui è particolarmente legato.
Se da una parte c’è la dimensione del vissuto reale della spedizione di Davide, aggregatosi al posto di Luca a Carlo Alberto Cimenti, detto Cala, e a Matthias Koenig, mentre è impegnato a misurarsi con il Dhualagiri, lottando contro i limiti del corpo umano e le condizioni proibitive della natura, molto spesso soccombendo, ma altrettante volte pronto a riprovare, dall’altra c’è Luca che impara a conoscere la sua nuova esistenza grazie a tre figure che incontra nella sua nuova dimensione. Lola la taverniera, un vero angelo che era e sarà per sempre legata a lui; Lord Francis Douglas, la sua guida (bellissima, peraltro, l’immagine dei capelli “arruffati da un vento impetuoso che li faceva sventolare da una parte all’altra”, che rimanda ad un corpo in caduta libera), che a 18 anni morì nel tentativo di conquista del Monte Cervino; e Primo delle Vette, il primo homo sapiens ad arrampicarsi in alta quota, uno spirito dalla grande conoscenza, che sa usare il Uari, Uari, l’energia necessaria per potersi trasportare come ci dice Luca
“ovunque il pensiero di me fosse vivo. Con chi mi amava era più facile. Dipendeva dal bene che mi volevano. Il loro amore nei miei confronti apriva canali che potevo attraversare per raggiungerli” .
Il grande messaggio che Portami Lassù ci trasmette è proprio questo. La morte non è un distacco definitivo; è un cambiamento di stato, che solo l’amore più intenso e altruista, come può essere quello tra madre e figlio o tra spiriti affini, può comprendere, permettendo all’animo di comunicare.
Portami lassù diventa, infatti, un momento di catarsi dove la perdita non è più vissuta come tale e indica, con una scrittura leggera e alle volte anche ironica, una via per riannodare quella corda che ci tiene legati l’un l’altro.
Personalmente, la lettura di questo libro, dove la montagna in tutti i suoi aspetti, da quelli più duri a quelli sorprendentemente più eterei, è uno dei protagonisti principali, ha rafforzato una mia convinzione e cioè che le persone che hanno l’amore dentro, ossia quell’esplosione di forza che a parole non si può spiegare, possiedono anche un vigore straordinario, una luce che rischiara i momenti più bui, una capacità di piegare il dolore e trasformarlo in energia vitale. Non siete d’accordo anche voi?