saggistica
Paginauno
settembre 2018
cartaceo
235
"Ricordo la prima volta che ho visto Cohen, a un reading di poesia a Vancouver nel 1966. Entrò a grandi passi in un'enorme aula universitaria stipata di ascoltatori entusiasti, e con nostra grande sorpresa aveva una chitarra sotto il braccio. Eravamo perplessi. La maggior parte di noi attendeva il poeta romantico di The Spice-Box of Earth; alcuni altri (incluso me) avevano sperato segretamente di sentire il sorprendente romanziere autore dell'appena pubblicato "Beautiful Losers". Nessuno era preparato per una chitarra strimpellata e una canzone ammaliante su una donna chiamata Suzanne. Così fummo tutti sbalorditi. Un terzo di secolo più tardi, io lo sono ancora" (Stephen Scobie). Senza dubbio l'opera di Leonard Cohen appartiene nella sua totalità al mondo delle lettere, eppure nessuna monografia l'ha finora presa in considerazione senza separare il poeta e il romanziere dal cantautore. Silvia Albertazzi mostra invece come poesia, narrativa e canzoni costituiscano per Cohen un'unica forma espressiva in continua evoluzione, in cui la bellezza dei perdenti e il valore della sconfitta sono esaltati attraverso un uso ipnotico e incantato della parola
UNA PANORAMICA MOZZAFIATO SULLE OPERE DI LEONARD COHEN, IL MITO PIÙ CONTROVERSO, CRITICATO E AMATO DEGLI ULTIMI DUE SECOLI
RECENSIONE
“Questo mondo è pieno di conflitti e pieno di cose che non possono essere unite ma ci sono momenti nei quali possiamo trascendere il sistema dualistico e riunirci e abbracciare tutto il disordine, questo è quello che io intendo per Allelujah. La canzone spiega che diversi tipi di allelujah esistono, e tutte le allelujah perfette e infrante hanno lo stesso valore. È un desiderio di affermazione della vita, non in un qualche significato religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione. So che c’è un occhio che ci sta guardando tutti. C’è un giudizio che valuta ogni cosa che facciamo”. Dichiarò Cohen ad un’intervista concessa al The Guardian riguardo alla canzone.
Penso a Cohen e subito mi figuro “Allelujah”. E subito dopo debbo chiedere venia per la pochezza di immaginazione. Ché Cohen ha regalato al nostro mondo un altro intero universo parallelo di creatività, duende e poesia, che ha incantato generazioni intere di persone “comuni”, indignato illustri pensatori e ispirato innumerevoli letterati.
“I bambini mostrano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da rivelare. Una cicatrice è ciò che accade quando il mondo si fa carne” (Cohen 2013 pos. 32 di 3410), scrive Cohen in apertura de Il gioco preferito. E tutta la sua opera si potrebbe leggere come una collezione di queste cicatrici che segnalano il farsi carne della parola, una ricerca della perfetta unione tra corpo e spirito, dell’estasi comune a sesso e religione: poesie-cicatrici mostrate quasi infantilmente, come medaglie, e canzoni-cicatrici che nascondono segreti da rivelare; romanzi-cicatrici in cui il mondo esplode facendosi carne e preghiere-cicatrici in cui l’unione estatica con la divinità si confonde con l’unione erotica della donna, secondo l’insegnamento del Talmud, che vede nel tashmish (il sesso) un riflesso del mondo che verrà, insieme al sabato e all’aurora.
L’autrice riesce con questa sua vasta, ricca, articolata opera ad uscire dai canoni di tutte le biografie sinora scritte su Cohen, che si erano soffermate su questo o quell’aspetto del “mito”, limitando di fatto la reale comprensione di tutto l’universo che lui ha rappresentato e rappresenta tutt’ora, poichè soltanto immergendosi nella totalità delle sue espressioni poetiche, letterarie, musicali, possiamo assimilare, amare o criticare Leonard Cohen.
“È stato uno scrittore innovativo e coraggioso, che non si è mai accontentato di riposare sugli allori del successo popolare, ma ha continuato a esplorare nuove forme e nuovi modi di espressione. C’è un’audacia intellettuale nel suo lavoro, una disponibilità a correre rischi più esagerati, che trovo ammirevole ed esaltante. Ovviamente, questi rischi non sempre riescono, ma anche i fallimenti di Cohen tendono a essere spettacolari. E i suoi successi sono magnifici”. Scobie affermava nel 1978, e si può riferire ancora oggi all’intera carriera di Cohen.
La lettura è stata impegnativa, ma esaltante. Mi sento di affermare che per parlare di Cohen bisogna naturalmente conoscere Cohen, ma non conoscere Cohen non implica il non poter godere di Cohen, e, da quanto sono riuscita ad apprendere di questo straordinario personaggio, sono convinta che l’artista, l’uomo, sia arrivato a trasmettere un concetto come nessun altro mai: conoscere godendo e godere conoscendo, superando i limiti umani, religiosi, filosofici, culturali, mettendosi a nudo, senza mai arrendersi, senza mai arrestarsi.
Silvia Albertazzi insegna Letteratura dei Paesi di lingua inglese all’Università di Bologna. Tra i suoi lavori: Lo sguardo dell’Altro (primo testo italiano di teoria postcoloniale, 2000; 4ª rist. 2011); In questo mondo (2006); Il nulla, quasi (2010); Belli e perdenti (2012); La letteratura postcoloniale (2013); Letteratura e fotografia (2017; 1ª rist. 2018). Collabora con Alias, supplemento letterario del Manifesto.
Lettrice oserei dire compulsiva, attraverso i libri riesco a vivere miriadi di vite diverse! Passo volentieri da un thriller ad un romanzo, da un fantascientifico ad uno storico, da un distopico ad uno psicologico, scartando solamente il genere horror, che proprio non è indicato per il mio animo sensibile. Grazie ad un casuale incontro su Instagram, ho potuto avere l’onore di entrare nel gruppo de La bottega dei libri, attraverso cui sto realizzando un mio sogno di sempre: lavorare nel mondo dei book blogger.