romanzo contemporaneo
Marsilio
5 settembre 2023
cartaceo, ebook
144
Sono settant'anni che ci separano dal 9 ottobre 1963, la notte del disastro della diga del Vajont. Erano le 22,39 quando milioni di metri cubi di roccia e terra precipitarono in pochi istanti nell'acqua, e l'onda immensa si alzò nel cielo e annientò in pochi minuti migliaia di vite, paesi interi, storie e tradizioni secolari.
Settant'anni è anche la vita di un uomo al quale sono accadute tante cose: i giochi da ragazzino al torrente, le gite scolastiche, i libri d'avventura letti, e poi l'amore, i figli, gli amici, tutto questo dentro quarant'anni di fabbrica di cui molti vissuti nella zona industriale di Longarone, all'ombra della diga, uno scudo chiaro che però è una lapide, ancora piantata lì, in mezzo alle montagne.
“La memoria non è mai fatta una volta per tutte: è come un lavoro, una specie di fragile costruzione che cammina su parole e sull’esempio delle persone” – da “Il saldatore del Vajont” di Antonio G. Bortoluzzi, edito Marsilio.
Un carpentiere sessantenne, che presta servizio presso un’azienda di Longarone, non è mai stato in visita alla, tristemente nota, centrale idroelettrica di Soverzene. Un ex compagno di scuola, uno dei pochi che ha proseguito gli studi diventando ingegnere, gli propone una visita guidata di gruppo proprio lì. Mentre percorre il corpo della diga, la memoria lo riporta alla sua giovinezza e all’impatto che la drammatica vicenda del Vajont ha avuto sulla sua gente.
“E quando c’è dolo, quando c’è colpa grave, allora è più di una cosa oscena, vergognosa, vigliacca”
Un operaio metalmeccanico di sessant’anni, in prossimità del suo pensionamento, ha due preoccupazioni principali: che si indica un’eventuale proroga dell’età pensionabile o che sopraggiunga una malattia impedendogli di godere dei frutti del suo lavoro.
Ha una moglie, un figlio già adulto e una madre anziana. Lavora a Longarone, un luogo che non rappresenta per lui semplicemente la sede dell’azienda dove si reca ogni giorno o una zona industriale. No, è una sorta di cimitero celato sotto metri e metri di terra e cemento. È uno dei paesi tra quelli interamente distrutti dal disastro del Vajont nel 1963, travolto dalla violenza dell’acqua e completamente ricoperto da metri di fango.
Egli vede quotidianamente in lontananza la grande parentesi d’acciaio, la diga a doppio arco conficcata nella valle rocciosa, ma non vi si è mai recato.
Lo confessa a Francesco, un ingegnere che organizza visite guidate alla centrale idroelettrica. Erano compagni di scuola ed è uno dei pochi giovani del posto ad essersi laureato. È proprio lui che lo incoraggia a recarsi con il suo gruppo a Soverzene. Perché forse, per uno nato in quei luoghi, è quasi doveroso. Egli ci si reca, nonostante le perplessità dovute al pudore di ammettere di soffrire di vertigini o forse al timore di ricordare ciò che per la generazione precedente alla sua rappresentò una pugnalata nel cuore. Perché esiste un “prima” e un “dopo” il Vajont.
“Voci sommesse che chiamano ancora lavoratori, studenti, impiegati, tecnici, politici, giornalisti, artisti, volontari, professionisti, paesani, famiglia, turisti. Sono le vittime del Vajont. E chiamano tutti noi, non solo i colpevoli” – Il saldatore del Vajont
Difficile inquadrare questo romanzo in un unico genere, si avvicina al saggio e al genere storico-contemporaneo. Racconta una parte di storia che ha scosso l’intero paese per la gravità dell’evento e per la sua ingiustizia. Un progetto ambizioso, che avrebbe dovuto rappresentare la grande innovazione, dietro al quale, però, si celavano diversi impedimenti effettivi. Questi furono volutamente ignorati in nome del progresso e dell’avidità.
Antonio G. Bortoluzzi ha trovato un modo singolare di introdurre un argomento così delicato: una visita guidata nella centrale idroelettrica di Soverzene. Gli occhi del protagonista sono anche gli occhi del lettore. È come se ci portasse dentro i corridoi (a volte ampi e a volte stretti come cunicoli) e sull’altezza della diga che suscita il suo sgomento. Il linguaggio narrativo è comprensibile, descrittivo ma anche introspettivo. Ogni cosa vista diventa un pretesto per riportare la mente indietro, all’infanzia e alla giovinezza del carpentiere. Di narrarci una realtà che non esiste più.
Egli ci parla dei suoi giochi nei boschi con gli amici, del suo servizio militare e di quello dello zio che si ritrovò a prestare aiuto dopo il disastro del Vajont. Il difficile e doloroso compito di cercare le persone ricoperte dal fango solidificato. Supportare i “sopravvissuti”. Questi altro non erano che le persone assenti dal paese in quella tragica sera, alla ricerca disperata di qualcosa a cui aggrapparsi piangendo.
“E noi giovani eravamo lanciati verso qualcosa che sembrava poter fare a meno del ricordo di ciò che era accaduto tra quelle montagne”
Nella parte dedicata ai ringraziamenti, l’autore spiega che l’esigenza di scrivere “Il saldatore del Vajont” deriva dal bisogno di ravvivare con vari contributi (giornalistici, scientifici o testimonianze personali) la tragedia del Vajont. Afferma che è un argomento sempre molto sentito e che spesso provoca sgomento e rabbia nella gente del luogo, di fronte ad affermazioni false o superficiali.
È tutto iniziato con le sensazioni provate dall’autore durante la visita della diga di Soverzene che, per nostra fortuna, ha voluto, indirettamente, ricostruire per noi in questo romanzo attraverso il vissuto del suo protagonista. Credo lo troverete da un lato interessante, se vi soffermerete sugli aspetti tecnici del percorso guidato, dall’altro molto toccante quando penserete a ciò che è costato e al perché (di questo vi sdegnerete profondamente).
“Non è sempre vero che tutto scorre; qui si respira una specie di eternità immobile che preme sulle spalle, e si adagia sul cuore”
Avevo visto tempo fa il film citato anche nel libro (Vajont – La diga del disonore), ammetto che precedentemente ero scarsamente informata. Dopo quella visione, avevo desiderato saperne di più dal momento che mi aveva profondamente colpita. Non potevo non leggere questo romanzo!
“Il saldatore del Vajont” è breve, rapido e accessibile. Offre punti di riflessione e immagini belle oltre che significative. Una di esse è quella della sequoia gigante, sopravvissuta alla violenza dell’acqua, o dell’anello al dito di una giovane donna la cui mano usciva disperatamente dal fango. Credo sia inutile elencarle tutte perché vanno lette e poi, chiudendo gli occhi, raffigurate nella nostra mente.
Avete preso visione di qualche altra documentazione, letteraria, giornalistica, fotografica o cinematografica sul Vajont?
5 stelle ⭐⭐⭐⭐⭐