
narrativa, storico
Newton Compton
14 gennaio 2021
cartaceo, ebook
288

Nel 1942, il giovane soldato britannico Arthur Dodd venne fatto prigioniero dall’esercito tedesco e fu trasportato a Oświęcim, nell’alta Slesia polacca. I tedeschi diedero a quel luogo un altro nome, oggi sinonimo delle ore più buie dell’umanità: lo chiamarono Auschwitz.
Costretto a lavorare per la fabbrica I.G.Farben – che impiegava anche manodopera ebrea fornita dal campo di concentramento –, obbligato ad assistere quotidianamente agli orrori che annullavano la volontà e l’umanità di chi li subiva e di chi ne era testimone, Arthur pensava che la sua vita sarebbe finita ad Auschwitz.
Deciso, tuttavia, ad assolvere fino in fondo il suo dovere di soldato e di buon cristiano, con i suoi compagni di prigionia sabotò il lavoro industriale nazista, rischiò la vita per alleviare le sofferenze dei prigionieri ebrei e aiutò un gruppo di partigiani polacchi a pianificare un’evasione di massa.
Questa scioccante storia vera getta nuova luce sulle operazioni del campo, rivela la gerarchia dei trattamenti degli internati da parte delle SS e presenta la storia, in gran parte sconosciuta, dei prigionieri di guerra militari detenuti ad Auschwitz.
“Al principio del 1943… il suo destino era suggellato. Quello che sarebbe accaduto nei due anni seguenti l’avrebbe portato dentro di sé per sempre… Il mondo non aveva mai sentito parlare di Auschwitz. Per il soldato semplice 182469 del RASC Arthur Dodd, si stavano per spalancare i cancelli dell’inferno.”
Auschwitz! Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, ben poco si sapeva dell’enorme mole di crimini che erano avvenuti all’interno dei campi di concentramento. Le parole venivano sovrastate da un silenzio ingombrante che, anziché portare pace, continuamente affossava il dolore sordo che affollava i sogni e i pensieri di chi aveva avuto la fortuna, se così si può definire, di sopravvivere, nonostante il numero tatuato sul braccio.
Mi sono sempre chiesta come mai coloro che sono riusciti ad attraversare quella sorta di inferno in terra non abbiano immediatamente rivendicato giustizia; il perché non abbiano preteso dal mondo intero scuse formali per essere rimasto troppo tempo in disparte, mentre uomini, donne e bambini, senza colpa, morivano per il delirio di un folle.
Ho dovuto leggere tanto, per sfiorare le menti di chi ha vissuto in prima persona tali abomini, e sono arrivata a capire che, in quei lontani anni ’50, le parole di costoro erano cementate dalla paura, dagli incubi e dalla sofferenza, mentre quelle di coloro che avevano solo assistito, impotenti, a tutto questo, erano bloccate dal senso di colpa e dalla vergogna.
Non mi ergerò a giudice di niente e di nessuno. Credo che solo chi ha vissuto un’esperienza di questo genere sia in grado di capire veramente di cosa si stia parlando. Sono grata a chiunque prenda il coraggio a quattro mani per rivivere anche solo per un attimo quei giorni, per fare in modo che non debba più accadere una cosa del genere.
Questo ha fatto Arthur Dodd, tramite la penna di Colin Rushton. Quest’ultimo, con una scrittura chiara, priva di fronzoli ed estremamente realista, ci fa partecipi della testimonianza di “ospiti privilegiati” dei campi di concentramento, uomini con mani in grado di accarezzare il prossimo, anche laddove le carezze non si sapeva più cosa fossero.
Era il 1943, quando Arthur fu internato ad Auschwitz. Lo status di prigioniero di guerra britannico assicurava a lui e ai suoi compagni un trattamento privilegiato, che consisteva semplicemente nell’avere a disposizione un po’ di cibo in più e qualche capo di vestiario, grazie ai pacchi della croce rossa. Fin dal primo momento che misero piede ad Auschwitz, gli inglesi capirono che là dentro stava accadendo qualcosa di troppo grande, anche solo da immaginare. Gli ebrei, che fin da subito incontrarono, erano ridotti a pelle e ossa, picchiati spesso senza motivo, costretti a fare lavori pesantissimi, che il loro fisico ormai provato non riusciva a sopportare. Inorriditi da ciò che vedevano, alcuni di loro si schierarono in difesa di quei corpi malnutriti, ma ben presto capirono che esporsi in questo modo portava soltanto ad accelerare la morte di quei poveri uomini, spesso giustiziati con una leggerezza da far spavento, magari solo perché destinatari di un gesto compassionevole.
“Quello che in particolar modo raggelava Arthur e i suoi compagni nel corso di questi eventi, era l’apparente normalità distorta di tutto ciò. Nessuno combatteva e non si sentiva volare un singolo grido di protesta. Sembrava che i prigionieri ebrei fossero rassegnati al proprio infausto destino”.
Impararono presto, i prigionieri inglesi, a diventare la spalla invisibile di quegli uomini, regalando loro, di nascosto, quello che potevano, cercando di sabotare in ogni modo la fabbrica dove lavoravano. Hanno combattuto la loro guerra silenziosa, consapevoli che un qualunque passo falso poteva trasformarsi in orrore. Lo hanno fatto, nonostante il clima fosse pesante e l’odore di carne umana bruciata aleggiasse continuamente nell’aria, facendoli sentire impotenti.
“Era impossibile calcolare quanti ebrei scomparivano, ma ogni giorno ne arrivavano migliaia dall’Europa dell’est, eppure la popolazione totale del campo non sembrava mai aumentare. I treni continuavano ad arrivare e i comignoli dei forni crematori a esalare le loro mortali colonne di fumo nel cielo. Per i britannici che si ritrovarono a osservare quello scenario assurdo, non ebbe più senso preoccuparsi della vita e della morte, o se fossero destinati al paradiso o all’inferno quando sarebbe arrivato il momento. Il loro momento era già arrivato, e si trovavano già all’inferno”.
Arthur si rifugiava nella Bibbia per potere andare avanti. La parola di Dio fu la sua forza in quei giorni in cui pareva che Dio la Terra l’avesse dimenticata del tutto. Non si aspettava sicuramente di uscire indenne da tutto questo; e invece tornò a casa e, dopo lunghi anni di silenzio, decise di far sapere al mondo cosa accadeva laggiù.
La sua testimonianza, e quella di molto altri prigionieri (o loro parenti) che incontriamo in queste pagine, ci mostra, oltre agli orrori, anche un volto diverso di Auschwitz, più umano. Ma è proprio grazie a questo sguardo pietoso che viene messa ancora più in risalto la crudeltà degli aguzzini che, anche se sembra assurdo, non sono sempre stati militari tedeschi. A volte si trovava del buono anche dietro a quelle divise che incutevano terrore solo a guardarle, dietro ai camici dei dottori che operavano nel campo, e in diversi impresari, come Schindler, che selezionava, tra gli ebrei da aggiungere ai suoi dipendenti, quelli più deboli, per salvarli da morte certa.
Non tutti gli inglesi sono riusciti a tornare dalle loro famiglie; non tutti quelli rimpatriati hanno avuto la forza di parlare. Ma le loro notti senza sonno, le loro grida che echeggiavano alle stelle arrivavano con più forza di qualunque discorso.
A questi uomini per molto tempo non è stato riconosciuto nulla, né un vitalizio degno di tale nome, né la gratitudine per non aver smesso mai di combattere. Ma io penso che questo, forse, fosse l’ultimo dei loro pensieri. Probabilmente avrebbero voluto barattare tutta la possibile gloria che poteva derivare dalle loro gesta con la vita di una sola di quelle persone, che laggiù hanno visto scomparire da un giorno all’altro. A loro e a tutti gli esseri umani umiliati e vittime di violenze di ogni genere va il mio pensiero e, credo, quello di chiunque possa leggere questo libro. E a quei soldati britannici va il mio più sentito grazie per il loro essere stati gocce di umanità in un oceano di atrocità.
Quanti di voi avevano sentito parlare del ruolo dei prigionieri britannici all’interno dei campi di concentramento?
Sahira

Sono emozione e di essa mi nutro
trovando scialbo ciò che non colora,
Sono emozione che con la penna divora
il bianco candido di un libro vissuto…