Romanzo storico
Il Ciliegio Edizioni
26 aprile 2024
Cartaceo
208
Agli inizi del ‘500, in Val Camonica, Lucina Picenni, una vecchia guaritrice, viene processata come strega e mandata a morire sul rogo. Ma chi è davvero Lucina?
Dopo la morte della condannata don Lazzaro, il curato, cerca di scoprire di quali delitti si sia davvero macchiata e di quali malvagità e violenze sia stata invece vittima, ma le sue domande ben presto irritano la gente del paese, che teme vengano alla luce i peccati di tutti.
“Il fuoco” di Tina Caramanico, edito Il Ciliegio, è un bel romanzo, che fa riflettere.
“In quel mese di marzo del 1519 era arrivato a Maino il Vicario dell’Inquisitore, Padre Lorenzo Maggi, e anche lì, come in tanti altri paesi della Valle Camonica, erano cominciati le ricerche, le torture e i processi, che spesso si concludevano con aperte confessioni, per debellare la mala pianta delle serve del diavolo”
Era opinione diffusa che le streghe causassero intenzionalmente malattie, provocassero tempeste che danneggiavano i raccolti e che avvelenassero persone e animali.
Don Lazzaro sapeva che Lucina Picenni non poteva essere una strega. Era solo una donna anziana, provata da una vita non facile. Il marito e i suoi figli erano morti di stenti o di malattia. Raccoglieva erbe, era vero, ma per preparare i decotti contro i malanni per i suoi compaesani, che la mandavano a chiamare.
Don Lazzaro era un uomo di Chiesa, ma ben distante dalla follia dell’Inquisizione. E se invece fosse stato lui a sbagliarsi e a sottovalutare la sua parrocchiana?
“Se il dubbio si insinuava perfino in un vecchio sacerdote, voleva dire che il Maligno davvero aveva diffuso in quei luoghi i suoi poteri oscuri, le cui radici erano antiche e profonde: stavano nell’arte della medicina e della magia con le erbe, che le donne praticavano da sempre, e nei desideri carnali che soggiogavano tutti, uomini e donne”
Poco si parla di quei curati, come Don Lazzaro, che erano stati denunciati o, addirittura, arsi essi stessi sul rogo per aver cercato di giustificare l’atteggiamento, che sembrava poco consono, delle presunte streghe.
Il fuoco, del titolo, è quello del rogo, ma anche quello del camino presso il quale l’anziano prete si perdeva nei propri pensieri e nelle riflessioni, mentre osservava danzare le fiamme.
Lucina fu sottoposta al supplizio della corda che “provocava dolorosissimi strappi e slogature delle articolazioni, e quasi nessuna delle donne a cui tale tortura era applicata riusciva a tollerare la sofferenza e a non confessare qualsiasi cosa gli Inquisitori volessero”. Quanto era straziante ascoltare le grida di dolore di una donna avanti con gli anni che, il curato ne era certo, colpevole non era.
Quelle torture erano talmente insopportabili che tutte le accusate chiedevano pietà e imploravano di farle terminare.
“Don Lazzaro sapeva bene che quello era il modo in cui le streghe confessavano di servire il Demonio e tutti i loro malefici. E sapeva che la confessione, estorta con i supplizi e non accompagnata da manifestazioni di pentimento che il Tribunale considerasse consistenti, portava alla morte col fuoco”
Se le parole pronunciate dalle condannate non erano quelle che l’Inquisitore avrebbe voluto sentire, venivano accusate di mentire.
“Questa è la prova! Solo il Demonio può renderti insensibile al dolore e al supplizio! Il tuo silenzio e la tua ostinazione saranno la tua condanna!”
Lucina ammise solo una colpa, se di colpa si poteva parlare, di aver avuto numerosi amanti. Nient’altro. Eppure fu giudicata “rea impenitente” e destinata al rogo solo perché diversi testimoni, vilmente, la accusarono.
C’era un forte spirito di denuncia e di diffamazione fra persone che si conoscevano da tempo e che si erano anche aiutate a vicenda nel corso degli anni. Il dubbio e il sospetto si insinuavano in tutti: vicini di casa, amici, perfino familiari. Nessuno riusciva più ad essere obiettivo.
Fino all’ultimo, Don Lazzaro supplicò Lucina di pentirsi e di chiedere perdono. Ma, le ultime parole della donna, furono:
“Ritornerò, non temete. Anche dopo morta, don Lazzaro, da voi ritornerò”
Una frase sinistra che suonò come una minaccia.
L’unica ad essere veramente disperata per la morte della donna era Fiorella Gardon, una ragazzina di tredici anni, la prima di una schiera di fratelli e sorelle, che aveva trovato in Lucina una madre, più amorevole e caritatevole di colei che l’aveva concepita.
Lucina le dava cibo e affetto e le aveva insegnato a riconoscere le erbe, il momento in cui raccoglierle, in che modo conservarle, come preparare i decotti e con quale luna somministrarli. Fiorella avrebbe proseguito la strada tracciata dalla sua maestra.
Nel curato si affacciò alla mente un’idea: “Mettersi alla ricerca della verità su Lucina, sulla sua vita e sulle sue colpe eventuali… Ora Lucina non c’era più, ma restavano le tracce che aveva lasciato in questo mondo, le persone che l’avevano conosciuta, amata forse, di certo odiata profondamente, ma per quale colpa?”.
Ecco il modo in cui Lucina sarebbe ritornata!
L’unica che poteva fornire al sacerdote spiegazioni era Lisabetta, l’accusatrice di Lucina. Però questo significava ammettere di non ritenere giusta la condanna da parte della Santa Inquisizione.
“Le cose che aveva da dire erano difficili, contraddittorie: di nuovo il vecchio curato avrebbe voluto l’aiuto dello Spirito Santo che gli sciogliesse la lingua e la mente, che gli desse parole fluenti e convincenti per dire e non dire, per affermare e non negare”
Erano tempi pericolosi, quelli. Bastava una parola per rovinare qualcuno. Era un potere non da poco.
I tempi erano difficili anche per i preti assennati e dubbiosi, come don Lazzaro. Preti che, in quel momento storico, sentivano Dio lontano, che faticavano a dire messa e a predicare a quella gente che si infervorava per delle povere donne accusate ingiustamente. Curati che capivano di essere circondati dalla cattiveria e dalle menzogne, ma che erano impotenti. Non avevano il potere di rovesciare la situazione.
I parrocchiani, ormai defunti, popolavano i sogni del sacerdote. Nel sogno si conosce anche ciò che non si comprende ma, spesso, non si riesce a vedere nitidamente tutto, si notano solo dei particolari, proprio quelli che potrebbero essere importanti.
“Don Lazzaro ora intravedeva una storia diversa da quella raccontata dalla vedova al processo. Intuiva una strada per arrivare alla verità, sebbene ancora difficile e tortuosa”
Erano tempi in cui fare del bene, somministrare decotti contro i malesseri era controproducente. Perché chi riceveva quei benefici, dimenticava in fretta il male patito e tendeva ad accusare colei che aveva cercato di alleviare i tormenti.
Tutto era riconducibile o a Dio o al Demonio. O al Bene o al Male. Non vi erano mezze misure.
Tina Caramanico è riuscita a raccontare una storia che parla, in modo accorato, di violenza diretta verso le donne. Le quali, inermi, erano costrette a tacere e a trovare la forza di andare avanti e di cercare un modo per sopravvivere.
“Il tempo traghetta tanta gente silenziosa, insignificante, da una riva all’altra dell’esistenza senza che ne resti traccia. Quello sarebbe stato il destino di Lucina, se una luce violenta e inattesa non l’avesse illuminata per un attimo, per poi spegnersi subito dopo e lasciarla di nuovo chiusa nel suo mistero”
Ringrazio l’autrice, Tina Caramanico, per avermi inviato una copia cartacea del suo libro.
5 stelle ⭐⭐⭐⭐⭐
Mi chiamo Alessia. Sono un’insegnante di matematica e inglese. Vivo in provincia di Pavia. Adoro leggere (soprattutto gialli), fare yoga e cucinare.