Arte, Teatro e Spettacolo
Ferrari
2 marzo 2019
Copertina flessibile
158

L’attore e poeta Donato Placido (fratello di Michele) racconta la sua parabola esistenziale, fatta di celluloide, inchiostro e spiritualità, in un libro nato dal sodalizio creativo con l’amico scrittore Antonio G. D’Errico. Il racconto si dipana sulla scia di toccanti ricordi e riflessioni: dagli anni trascorsi in famiglia, in Puglia, a quelli della formazione attoriale a Milano, per arrivare all’incontro con il mondo del piccolo e grande schermo. E poi, il legame umano e artistico con il fratello Michele, con attori e registi come Tinto Brass, Marco Bellocchio, Riccardo Scamarcio, i retroscena inattesi sui set. E ancora, la passione per la poesia, le scelte anticonvenzionali, le contraddizioni apparentemente discordanti, i momenti bui, impressi nella memoria, trasformati in luci della coscienza. Gli eventi privati si compenetrano così con quelli pubblici, in un lucido amarcord, tra passato e presente, che a tratti ricorda un romanzo intimista, a tratti un pamphlet di denuncia contro le ingiustizie, a tratti, infine, Dio e il cinema si fanno rifugio taumaturgico di una vita maledetta tra cielo e terra. Il volume è accompagnato dai testi introduttivi di Michela Zanarella e Antonio Pascotto. In copertina Donato Placido (dx) con Malcolm McDowell, sul set di Io, Caligola, di Tinto Brass (dal sito http://www.ferrarieditore.it/shop/libri/dio-e-il-cinema/ ).
Una parabola esistenziale, fatta di celluloide, inchiostro e spiritualità
Prima di tutto è necessario dire che nel testo scritto da Donato Placido con Antonio G. D’Errico non si sente mai la differenza fra le due mani degli autori, ma la sintonia e la condivisione appaiono totali, certamente un’esperienza rara. A volte, però, si percepisce una specie di frammentazione che attiene, sembra a chi scrive, non tanto alla scrittura, quanto alle difficoltà e ai momenti abissalmente diversi, rispetto a felicità, sicurezza e bisogni fondamentali, della vita di Donato.
Commovente l’incipit che racconta l’avventura esistenziale del padre e, dunque, della sua famiglia che, in una terra povera e caratterizzata da sofferenze e fatica, viene percepito come una “personalità di un certo rilievo” in quanto geometra con incarichi catastali che gli permetteranno, dopo un (per quei tempi) difficile viaggio, di conoscere la madre, innamorarsene e sposarla. E così profondamente ricca di calore mediterraneo e confusione appare la descrizione di una casa sempre piena di gente, un affollamento di persone e di voci che non scompaiono mai. E in questa narrazione sembra di leggere tra le righe che Donato ha ereditato la generosità e l’umanità del padre che ci descrive con affetto come “un uomo di grande bontà e di eccellenti qualità umane”. E più forte ancora forse sono l’affetto e l’ammirazione per Gerardo e Michele, i fratelli maggiori, soprattutto il secondo, il figlio prediletto della madre, che non solo ama come succede ai piccoli, ma che in qualche modo venera definendo il suo carattere simpatico, dolce; caratteristiche che non sembrano proprio tipiche del Michele Placido che noi pubblico conosciamo, grande attore, certo, ma con una personalità decisamente importante. Persino quando parla del suo modo di affrontare il mondo non riesce a fare a meno di parlare di lui:
“Ho lottato come mi veniva chiesto dalla vita. E ho resistito a condizioni durissime. Ma sono vivo. Questa sicurezza mi dà speranza per l’oggi e per il domani. Il passato è passato. Non guardo indietro, sono abituato a volgere lo sguardo in avanti, per cercare una via d’uscita, ora come allora. Posso dire questo di me, come lo dico anche di Michele”.
Anche quando racconta episodi della sua vita ci dice cosa ha fatto o cosa avrebbe fatto Michele; e questo legame con il fratello caratterizza tutto il libro che sembra essergli dedicato piuttosto che all’esistenza stessa di Donato che si rivela al lettore in tutto il suo difficile percorso solo alla fine, come come forse è stato nella realtà. Suscita tenerezza un po’ tutto il suo modo di affrontare la realtà, con una purezza e un’ingenuità che risaltano soprattutto in contrasto con il mondo attuale, così duro, per molti aspetti insensato e non di rado feroce. Parlando del suo presente Donato dice che:
“Oggi è tutto molto cambiato. Sono tornato a vivere al mio paese, dopo quarant’anni che ho vissuto prima a Milano e poi a Roma. Ci vivo stabilmente da quattordici mesi e, sinceramente, posso dire che il mio rapporto con questo Meridione è conflittuale, a tratti burrascoso. Ma soprattutto non ho un gran concetto di come si svolge la vita adesso”.
A chi scrive la sua esistenza sembra non pienamente (o non ancora) realizzata; anche perché, nonostante la presenza di Dio, la sua percezione della vita è dolorosa e priva di speranza e parla di efferati episodi di cronaca per sostenere la sua visione e spiegare come mai, a suo parere, Dio ha abbandonato gli uomini ed esprime una percezione davvero negativa della realtà:
“Viviamo un’epoca terribile in cui i sentimenti hanno avuto la peggio, la parola profonda si è estinta e lo sguardo sincero e penetrante non suscita più interesse”.
Una riflessione che sembrerebbe appartenere al mondo interiore di Donato, alla sua storia e a una sofferenza che lo accompagna e, in un certo modo, lo pervade nella sua percezione, profondamente triste, della realtà. Inoltre chi scrive ha sentito con grande forza in tutto il testo un profondo senso di colpa che Donato si porta dentro e dietro e che sembra la motivazione più forte per il suo avvicinamento a Dio, la cui presenza lo rassicura e lo conforta in un buio che altrimenti potrebbe sommergerlo.
“Nessuno mi ha mai rimproverato niente, ma io so di aver sbagliato. Non lo dico inutilmente, ma per un bisogno sincero di ricordare ogni cosa senza ipocrisie e giustificazioni. Il mio cammino adesso tende alla luce e alla verità di tutte le cose, quelle passate e quelle future. Il presente lo vivo”.
Riguardo a questo è impressionante il coinvolgimento emotivo che esprime interpretando un personaggio schiacciato dal senso di colpa nel film “L’ora di religione” di Marco Bellocchio:
“Sbattevo i piedi per terra, interpretando Egidio, tremando nei gesti per la disperazione che gli procurava il suo senso di colpa”.
E la sua spiritualità è accompagnata da visioni e colloqui con gli angeli con cui parla come se esistessero davvero; avvenimenti che, per chi non crede all’esistenza di creature di questo genere, appaiono piuttosto inquietanti e, per certi aspetti, preoccupanti; tutto questo legato a un desiderio fortissimo, bruciante di fare ammenda, di poter ripararare agli errori che ritiene, a ragione o a torto, di aver commesso in passato:
“Per quanto mi riguarda, ritengo che sia troppo tardi per riparare al mio sbaglio. La mia età e la mia condizione non mi permettono di avere troppe certezze per il futuro. Eppure, coltivo un sogno che nessuno mi può impedire, né gli anni né le occasioni da vivere. Credo che la mia vita possa subire una svolta, e questa mia capacità di raccontare possa portare anche buoni frutti. In realtà, è quanto spero”.
Poi, d’improvviso appare la prima frase non elogiativa del fratello Michele relativa al fatto che gli rimprovera il suo modo di mangiare che forse riguarda anche il suo modo di vivere che probabilmente impensierisce le persone che gli stanno intorno e gli vogliono bene. Non a torto sembrerebbe pensando all’episodio con l’emorragia imponente di cui racconta a un certo punto. Del fratello dice:
“Tutti mangiano. Anche lui mangia. Però è più grave se mangio io. Non riesco a capire, davvero”.
Poco dopo ricorda anche, però, come il fratello si sia reso conto di un suo momento di terribile difficoltà e gli abbia offerto un lavoro che, in certo senso, gli ha impedito di scendere una china da cui difficilmente si può risalire. Esprime quindi una gratitudine che il lettore si sente di condividere pienamente anche perché spesso le persone non sono capaci di rendersi conto di quanto l’altro stia male, troppo presi da se stessi. E così capiamo anche il legame fortissimo tra fratelli che poteva sembrare, in alcune situazioni, solo a carico di Donato e che, invece, nei fatti, con questo episodio appare totalmente ricambiato da Michele, con vero affetto, attenzione e cura da fratello.
“Gli sarò sempre molto grato per la sua attenzione ai miei bisogni, in quel momento, che ha compreso in tutta la loro necessità. È grazie a Michele se sono ancora in piedi. Sarei potuto cadere facilmente, finire per strada, sotto un ponte”.
Anche se in alcune occasioni non si è rivolto a lui:
“Ho pensato tante volte di chiedere aiuto a mio fratello Michele, ma per orgoglio non l’ho fatto. Non l’ho ritenuto utile e coerente. Avrebbe sofferto per una sciagura che era toccata a me e a nessun altro.
Così come quell’aiuto, da alcuni rifiutato, sarà poi offerto da Riccardo Scamarcio, che si mostra solidale e generoso, e anche da una persona incontrata alla mensa della Caritas, da qualcuno “seduto a tavola con me, ferito nella carne e negli occhi, ma capace di regalarmi un sorriso che mi ha riscaldato il cuore, quando ero in quella condizione di abbandono. Il conforto è arrivato da un povero barbone. E la mia salvezza è stata la preghiera”.
Qui Donato coglie l’occasione per definirsi, con ironia, “un barbone di lusso”; e parla anche inoltre della difficoltà di avere come fratello un attore e regista famoso anche se nessuno dei due, in effetti, ha colpa di questa situazione.
E racconta:
“Penso che nella mia vita mi sia ritrovato spesso a fare il diverso senza che l’avessi mai programmato. Ovunque mi trovi sono attratto da ciò che è marginale e onesto. Quando passavo per le strade di Roma e vedevo sotto un porticato dei barboni rannicchiati dentro degli stracci dicevo tra me: “Questi sono i miei amici”. Anche in paese mi sento più vicino agli ultimi e non a chi ritiene di essere al di sopra di tutti. ”
Alla fine ci offre un’analisi della realtà contemporanea, distaccandosi così dalla prospettiva che potremmo chiamare intimista che ha seguito per quasi tutto il testo; una visione politica e sociologica che, però, ritorna all’approccio individuale, anche se è sempre presente l’idea di massa, quando parla dell’ossessione estremamente diffusa per il successo a tutti i costi e del basso livello di qualità della produzione artistica, in generale, e letteraria, in particolare, nel mondo contemporaneo. Cita a questo proposito, Schopenauer, che però, forse non leggeva (o non amava, se li leggeva) i contemporanei per altri motivi visto che si trattava di filosofi come Hegel (con cui sarà in guerra per tutta la vita), Schelling, Fichte, Schleiermacher; e che era comunque circondato dai grandi autori del Romanticismo alcuni dei quali condividevano il suo pessimismo, come Leopardi che, oltre tutto, lo considerava un punto di riferimento e che lui sicuramente leggeva. Una situazione ben diversa da quella in cui viviamo oggi. In ogni caso il filosofo stesso scrive, Nel suo “Saggio sulla fama”, in Saggezza della vita (raccolta di aforismi): “Quanto più un uomo appartiene alla posterità, in altre parole all’umanità in generale, tanto più egli rimane estraneo ai suoi contemporanei”.
Forse, dunque, è proprio l’isolamento di Schopenauer che lo fa sembrare vicino al nostro autore, il suo essere controcorrente e il suo vivere una (più o meno, a volte sì a volte no) solitaria, faticosa esistenza, ma sempre insieme al suo cane; in lotta soprattutto con se stesso e il suo essere e sentirsi diverso dentro il momento storico, politico e culturale in cui viveva e non trovando perciò il riconoscimento che sentiva di meritare e che arriverà solo in vecchiaia. Una percezione, a parere di chi scrive, che in Donato si unisce all’essere stato un giovane degli anni Settanta, un periodo che ha lasciato segni profondi nella società italiana e nell’animo di tutti coloro che quei tempi hanno vissuto con intensità; probabilmente soprattutto nella sua particolare sensibilità.
In conclusione comunque, sembra necessario dire che quello che Donato scrive su Dio, il suo modo di percepire la spiritualità, fa pensare, nonostante le abissali differenze fra le persone e le situazioni, alla famosa riflessione che è alla base del tormentato pensiero di Dostoevskij. Un’idea che già aveva descritto, anche se in termini diversi, in Raskòl’nikov (Delitto e castigo) e Kirìllov (I demoni), cui darà poi voce la straordinaria figura di Ivan (forse non alter ego dell’autore, ma certamente il personaggio che sente maggiormente vicino a lui con il suo tormento), ne “I fratelli Karamazov:
Senza Dio, senza vita futura? Dunque, sarebbe tutto permesso, allora adesso si potrebbe fare tutto?
Donato Placido, attore, scrittore e drammaturgo. Fratello del noto Michele, dopo aver frequentato l’Accademia del Piccolo Teatro, ha lavorato in fiction televisive di successo come Il “fauno di marmo”, “L’ultimo padrino”, “Romanzo criminale”. Nel mondo del cinema ha recitato in diversi film, tra cui “Io, Caligola” di Tinto Brass, “L’ora di religione” di Marco Bellocchio, “Il mattino ha l’oro in bocca” di Francesco Patierno, “Tre giorni dopo” di Daniele Grassetti, “Ovunque sei” diretto dal fratello Michele. Ha scritto e interpretato raccolte di poesie, romanzi e testi per il teatro. Tra i suoi libri si ricordano: “Sperando e risperando. L’intuizione” (1999), “Preghiere di tutti i giorni” (2002, con Antonio G. D’Errico), “Zenit” (2003), “L’incontro” (2004, con Antonio G. D’Errico), “A Gemstone in the Rock” e “Spalle al muro” (2012 e 2015, con Olga Matsyna).