“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”
L’inciso, tratto dal Vangelo di Giovanni, introduce quella che impropriamente è definita “l’ultima poesia” di Giacomo Leopardi, dal momento che chiude la raccolta I Canti. D’altronde, associare la citazione a Leopardi non stupisce affatto: lui è il poeta, simbolo ed emblema, del pessimismo letterario (e di vita).
A scuola, le nostre insegnanti ci descrivevano il poeta storpio nel corpo e nell’anima, sofferente per quella vita in cui non riusciva ad elevarsi e a manifestare le proprie emozioni se non scrivendole. E noi, studiavamo a memoria le sua poesie, elencando, durante le interrogazioni, le diverse fasi della sua esistenza, scandite in pessimismo individuale, pessimismo storico, pessimismo cosmico e pessimismo eroico.
Oggi, nella rubrica “Dasempre & Persempre“, condividerò con voi la risposta ad una domanda che mi sono sempre posta su questo poeta, che, seppure pessimista per eccellenza (sarebbe una blasfemia letteraria considerarlo altro), riesce, a mio parere, a stupire il lettore alla fine di tutta la sua opera.
I Canti rappresentano, come detto, la fondamentale raccolta di poesie che occupano tutta la vita di Giacomo Leopardi. Ne rappresentano quasi la storia, perché dalla liricità di quei versi si ergono tutti i suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi modi di vedere e percepire ciò che lo circonda. E tra queste, oggi parleremo di La Ginestra, la poesia che conclude la raccolta ed è pacificamente definita come il “testamento poetico” del poeta.
È proprio La ginestra a concludere la raccolta di poesie, anche se non è probabilmente stata l’ultima poesia effettivamente scritta da Leopardi, seppur una delle ultime. Costituisce la poesia più lunga, quanto a numero di versi, dell’opera e sintomatica del fatto che forse, sul pessimismo leopardiano c’è qualcosa in più da intuire. Perché collocarla alla fine? In quanto testamento poetico del poeta, costituisce effettivamente la manifestazione più piena ed effettiva del suo pessimismo interiore?
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti.
Interlocutrice del poeta è proprio la ginestra, che “contenta nei deserti”, fiorisce dopo i danni provocati dal Vesuvio, definito “sterminator”, in riferimento all’eruzione del 79 d.C. Nulla lascia all’uomo se non il deserto; anzi, il deserto e un fiore “odorato”.
La poesia, di cui non riporto per intero il contenuto (sono sette lunghe strofe, dal variegato stile, ma dall’intensa liricità), ripercorre diverse tematiche care al poeta e rappresentative del suo modo di interpretare la realtà delle cose. Tra queste, la polemica contro il suo secolo per aver abbandonato la razionalità illuminista, contro la miseria della vita umana, contro gli egoismi dell’uomo che si crede al centro dell’universo, per poi ritornare all’eruzione con cui aveva aperto la lirica e constatare che essa ha distrutto le città sottostanti il vulcano. In questo contesto l’uomo non può che essere paragonato ad una formica; nulla può contro le grandezze della natura che, giustamente, gli si oppone.
Eppure, da pessimista qual è sempre stato descritto, ci aspetteremo una conclusione della poesia che sia degnamente descrittiva dell’aridità della realtà circostante. L’eruzione spazza via tutto; nulla sopravvive; ogni cosa svanisce. E invece, diversa è la conclusione che noi oggi leggiamo:
E tu, flessibile ginestra,
che abbellisci coi tuoi profumati cespugli questi aridi campi,
anche ti presto cadrai davanti alla forza della lava,
che scorre sottoterra, la quale,
tornando sul luogo a lei già noto,
stenderà nuovamente il suo manto distruttore sui tuoi fragili cespugli.
E piegherai, senza alcuna resistenza, il tuo innocente capo
sotto quel peso distruttore;
ma quel capo, fino ad allora non lo avevi piegato invano,
in un vigliacco gesto di supplica davanti all’oppressore che sta per arrivare;
ma non lo avevi innalzato al cielo, con orgoglio dissennato,
né lo avevi alzato sul deserto,
dove sei nata e hai vissuto non per tua scelta ma solo per caso;
ma più saggia, ma tanto meno debole dell’uomo
in quanto non hai creduto che la tua fragile specie
sia stata fatta immortale dal destino o da se stessa
Beh, certo. Dopo aver letto questi versi, forse la prima cosa a cui penserete sarà “Che infelicità!” o “Che pessimismo!”. E lo farete non a torto. Ma vi invito a farvi questa domanda (che ho fatto anche a me stessa): in tutta questa aridità e tragedia naturale, perché la ginestra resta lì, ferma, nel deserto fino alla fine della poesia? Perché non è stata portata via dal vento o sotterrata dalle macerie o bruciata dal fuoco? Perché proprio la ginestra, con il suo sgargiante colore?
Vero è che il contesto in cui si erge la ginestra è di una tristezza disarmante (aridi campi, manto distruttore, peso distruttore) e la sua condizione è fragile, vinta, sopraffatta, debole rispetto a cotanta forza distruttrice. Ma lei resta, lì, con tutte le sue fragilità. Resta, perché può farcela; resta, anche se non ha scelto lei di rimanere; resta, continuando ad abbellire quel terreno disastroso.
Non riesco ad essere pessimista a riguardo! Come può, una tale immagine, far perdere ogni speranza per la vita o farci credere che non ci sia colore che regga dinanzi all’esistenza a cui l’uomo è stato condannato?
Si, tutto parte dal pessimismo. Ma è dalla conclusione che si comprende l’essenza della vita trascorsa.
Leggere mi stimola e mi riempie. L’ho sempre fatto, fin da piccola. Prediligo i classici, i romanzi storici, quelli ambientati in altre epoche e culture. Spero di riuscire a condividere con voi almeno parte dell’impatto che ha su di me tutto questo magico universo.