Quando penso ai Classici della Letteratura italiana, la mia mente, senza intoppi, pensa subito ad un’opera in particolare (e forse chiamarla ‘opera’ è di per sé riduttivo), la Divina Commedia.
Non è mia intenzione scrivere oggi un manuale su un capolavoro dell’arte poetica e non solo. Risulterebbe banale e inutile, dato il vasto materiale reperibile su Dante in generale e sulle sue opere. Ma possiamo qui, insieme, soffermarci (anche in più episodi, a mo’ di appuntamento letterario a puntate) su curiosità, aspetti specifici, considerazioni anche personali.
La rubrica “Dasempre & Persempre” credo sia il luogo giusto per condividere con voi alcuni versi della Divina Commedia, che a me sono molto a cuore e che alimentano miei dubbi e riflessioni. Tra queste, il pianto di Paolo.
Ci troviamo nella Cantica dell’Inferno, nel quinto canto. Dante, insieme all’inseparabile guida Virgilio, è riuscito, da essere umano e vivente, ad oltrepassare prima Caronte, poi Minosse, perché “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”, ed è arrivato nel primo cerchio dei peccatori. Qui sono punite le anime dei lussuriosi, che in vita si sono abbandonati alle passioni. Sono travolte in un vortice e, così come hanno in passato unito i loro corpi peccando, ora si scontrano con violenza, prede di queste folate di vento.
E tra i lussuriosi Dante colloca due anime, fin troppo conosciute dai più, ossia Paolo e Francesca, o Francesca e Paolo, come forse è più consono presentarli. Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, aveva sposato il figlio deforme e zoppo del signore di Rimini, Gianciotto Malatesta, per porre fine all’astio tra le due città e sancire la pace. Ma l’amore sboccia tra Francesca e il cognato Paolo durante la lettura del bacio tra Lancillotto e Ginevra. Scoperti, i due amanti furono uccisi da Gianciotto.
E altrettanto note sono le tre terzine pronunciate da Francesca che raccontano l’inizio, il fulcro e la fine di una storia d’amore che condusse i protagonisti alla perdizione.
“Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende”
L’amore stilnovista si erge tra codesti versi. Quell’amore che “ratto” si insinua in un cuore “gentile”, ossia quel cuore in grado di provare l’amore cortese nei confronti di una donna che è angelo e funge da intermediaria con Dio (la poetica dell’amore era già chiara, come si può leggere nella Vita Nova, e in particolare nel sonetto “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa”).
E questo amore che non ha eguali fece innamorare Paolo di Francesca, che perse la sua “bella persona”. Fu peccaminoso il passaggio “doloroso” dall’amore cortese a quello carnale e adultero, che ha indotto Dante a collocare i due amanti nell’Inferno per scontare la loro pena. Un “doloroso passo” che, anche dopo la morte, continua a danneggiarli e continuerà a farlo.
Seguono i versi-chiave:
“Amor ch’a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer si’ forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona”
Esplode qui la reciprocità dell’amore: l’amore non permette a nessuna persona amata di non ricambiare! E così e accaduto a Francesca e Paolo, tant’è che ancora dopo la morte sono insieme, fluttuano insieme legati, anche in balia del vortice di vento.
L’unione tra le due anime mi ha interessata fin dai tempi – ormai or sono – del liceo: uniti nell’amore, uniti nel peccato, uniti nella morte, uniti nella pena. Ma in che modo? Dante ci presenta una Francesca, forte, arrabbiata, innamorata che prende le redini del discorso e racconta di questa storia; un Paolo che, silente, piange.
Che significato attribuire al pianto di Paolo?
Certo, ci aspetteremmo che sia l’uomo a mostrare forza e a rincuorare la sua donna del dolore subito: e invece no! Sembra quasi affievolirsi l’immagine dell’amore cavalleresco che fu “galeotto” per i due amanti. Ho provato a darmi diverse spiegazioni nel tempo.
Sicuramente Francesca e Paolo sono, come dicevo, uniti: Francesca racconta e Paolo completa l’opera della sua amante manifestando lacrime, dolore. Continuano ad essere una sola persona dopo la morte. Ma perché non a ruoli invertiti, come sarebbe più idoneo rispetto ai ruoli che detenevano l’uomo e la donna?
Paolo nulla racconta della sua storia d’amore, sfociata poi in tragedia. Nulla commenta. Comunica con gli occhi, piangendo. Non una parola o un gesto nei confronti di quella donna che ha amato e ama e che, coraggiosa e forte, racconta a testa alta il misfatto.
Forse Dante attribuisce al personaggio di Francesca il ruolo di donna-angelo, seppur infernale? È interessante pensare che, anche peccatrice, la donna non perda la sua funzione di essere intermediaria, in questo caso tra se stessa, il suo amato e Dante, e il lettore in generale (non potrebbe di certo più esserlo verso Dio). La donna funge da guida al racconto, ma anche da guida e tutrice della sofferenza di Paolo.
È forte il dolore: tanto forte che Dante non vi resiste e “cadde, come corpo morto cade”: non ci sono più parole, né emozioni. Dinanzi a tale stuolo di sentimenti, il corpo non può reggere e tutto ciò che resta da fare è svenire e andare avanti con la prossima storia infernale da raccontare.
“Amor condusse noi a una morte
Caina attende chi a vita ci spense”.
Ecco la tragica fine che attese i due amanti: la morte. Ma la stessa sorte sarà del traditore che li ha uccisi: la Caina, molto più in fondo, lo attende con una pena peggiore (l’immersione fino al collo nel ghiacciato lago Cocito, con il volto rivolto in basso). E come all’inizio, Francesca e Paolo si sono presentati a Dante e Virgilio uniti, così uniti ritornano al loro eterno contrappasso.

Leggere mi stimola e mi riempie. L’ho sempre fatto, fin da piccola. Prediligo i classici, i romanzi storici, quelli ambientati in altre epoche e culture. Spero di riuscire a condividere con voi almeno parte dell’impatto che ha su di me tutto questo magico universo.
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