
narrativa letteraria
Feltrinelli
25 febbraio 2013
kindle, cartaceo
288

In un tempo e un luogo non precisati, all'improvviso l'intera popolazione diventa cieca per un'inspiegabile epidemia. Chi è colpito da questo male si trova come avvolto in una nube lattiginosa e non ci vede più. Le reazioni psicologiche degli anonimi protagonisti sono devastanti, con un'esplosione di terrore e violenza, e gli effetti di questa misteriosa patologia sulla convivenza sociale risulteranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l'insensibilità altrui, e qui si manifesta tutto l'orrore di cui l'uomo sa essere capace.
Vuol dire che abbiamo parole in più, Vuol dire che abbiamo sentimenti in meno.
La vita tende a sorprenderci sempre nei momenti che meno ci aspettiamo: un secondo prima si osserva il disco giallo illuminarsi e il secondo ti ritrovi ad essere circondato da pura luce, i tuoi occhi non riescono a vedere nient’altro che ‘un mare di latte’. Una situazione così bizzarra, inusuale, incerta. L’uomo era comodamente seduto in macchina, stava per tornare a casa quando d’un tratto, divenne cieco, ma non era una cecità buia, no. Era una cecità bianca. Le persone iniziarono a bussare il clacson, ad avvicinarsi per comprendere perché quella macchina fosse lì ferma. Quelle persone non riuscivano a credere alle loro orecchie: ‘sono cieco’, disse l’uomo seduto in macchina. Tante domande sorsero, senza risposte. Quell’uomo era diventato improvvisamente cieco, sarà vero o si starà burlando solo di quelle povere persone? Ebbene sì, tutto vero. La vita di quel pover’uomo è stata stravolta senza nessuna apparente ragione. L’uomo, che viene convenzionalmente chiamato primo cieco, fu ‘gentilmente’ aiutato a tornare a casa, e dopo che la moglie fece ritorno a casa, le spiegò la situazione; decisero che era opportuna una visita oculistica. L’oculista era tanto sorpreso, l’occhio era perfetto, ma non c’erano dubbi: l’uomo era cieco. Si mise a cercare una risposta per tutta la notte, discutendone con un collega. Hanno provato a dargli un nome, a cercare cose potesse essere questa cecità improvvisa, questa cecità bianca. Cecità psichica, dicevano; agnosia, dicevano… ma in realtà non sapevano a cosa sarebbero andati in contro: era un’epidemia. Un’epidemia di cecità, la prima.
Furono subito prese delle precauzioni. Lo Stato, di un luogo indefinito come per dire è dappertutto e da nessuna parte, ha deciso di rinchiudere in un ex-manicomio tutte le persone già contagiate e tutte le persone a rischio contagio. Lo Stato, però, non aveva considerato un piccolo particolare: era un’epidemia. Le persone aumentavano di giorno in giorno finché la situazione non diventò tragica, indecorosa, creando un paesaggio quasi distopico. Le buone maniere iniziavano a scomparire, con l’igiene. Ma in fondo cosa importavano l’igiene e l’estetica in un mondo di persone cieche? L’estetica non è altro che decoro, bell’apparenza. E a cosa serviva loro il bell’apparire se vivevano in uno stato di degradazione totale? Sia morale che fisica. Erano condannati ad una vita misera, povera, con persone non molto amichevoli. Erano costretti a urlare in silenzio e piangere sotto lo sguardo di tutti. Vivevano come dei condannati a morte, come se la vita non avesse alcun tipo di valore. Il loro stato mi ha ricordato molto come vivevano le povere persone che sono state trasportate ad Auschwitz, spogliate di tutte i loro beni, costrette a vendersi per mangiare, e morire se si faceva un piccolo errore, anche involontario… tanto che interessava? Non vedono, meno ce ne sono meglio è. Affrontiamo un ritorno allo stato primitivo, dove il non vedere li ha resi non solo privi di uno dei cinque sensi, bensì anche della civiltà.
La privazione della vista è in un certo senso, la privazione della ragione.
Con molta probabilità, Saramago ha voluto farci notare come sia facile la ripetizione del passato, come sia semplice rovinare ciò che abbiamo oggi di così grande. Forse il suo intento era farci apprezzare la vita così com’è, senza pensare troppo al futuro che tanto ci appassiona. Un futuro ignoto, misterioso. Non occorre focalizzarsi su ciò che non possiamo esserne a conoscenza. Viviamo e amiamo il presente, a ciò che possediamo e a chi abbiamo. Dobbiamo essere capaci di perdonare, di migliorarci, di conoscerci e conoscere il più possibile. Appassioniamoci alle piccole gioie quotidiane, ad una canzone per radio, una lettura, una notizia.Liberiamoci da quelle catene che ci costringono a non vedere oltre. In generale, il libro mi ha ricordato molto ‘il mito della caverna‘ illustratoci dal filosofo Platone: ‘si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dalla nascita, nelle profondità di una caverna’. I protagonisti del romanzo non sono stati incatenati fin dalla nascita, e ciò rende ancora più complicata la situazione. Sono stati presi dalle loro vite quotidiane ordinarie e trasportati nella loro caverna, privi di qualsiasi mezzo per riuscire nell’intento di raggiungere la libertà (o quasi). Impariamo ad amarci, proprio come ci è riuscito uno degli sventurati. Stava per morire, ne era conscio, ma era felice. Era felice la prima volta dopo molto tempo, forse era la prima volta che si sentiva così, forse era il dolore a farlo parlare e pensare in quel modo. Ed è inutile negare che la felicità è l’emozione più bella di tutte. Forse per lui la privazione della vista è stata un dono. Era riuscito a trovare la speranza. Quella speranza melanconica, come se fosse quasi finta, una speranza di chi sta per chiudere gli occhi un’ultima volta abbandonandosi definitivamente al mare di latte. Una speranza di chi sapeva di andare incontro alla morte. Ma era felice.
Davanti alla morte, quel che ci si aspetta dalla natura è che i rancori perdano forza e veleno, ma cosa conta il furto di un’automobile davanti al morto che l’ha rubata, non c’è mica bisogno degli occhi per sapere che questa faccia non ha né naso né bocca.
Nonostante le disgrazie, le vicende orribili sono riusciti ad amare l’arte. La descrizione di un quadro dove vi erano dipinti così diversi e di così diversi pittori. Un po’ come loro, così tante persone, ognuna totalmente diversa dall’altra, con storie e vite distanti dalle realtà altrui, ma rappresentati in un unico quadro. Sta al lettore l’interpretazione del quadro in cui vivono: manicomio o cecità? In fondo è tutto collegato, il manicomio è il loro luogo di incontro, e la cecità è i motivo per il quale sono intrappolati lì.
Non ci sono stelle nel cielo bianco
Ciò che più ho amato del libro è stato lo stile che Saramago ha scelto di adottare nella scrittura: non esistono i nomi dei protagonisti o la tipica punteggiatura da discorso diretto. A che scopo conoscere i nomi di persone sconosciute alle quali non si potrà associare la voce? Il dialogo avviene solo in discorso diretto implicito. Potrebbe risultare più difficile la lettura, ma assicuro che è la scelta più saggia. I protagonisti non sanno realmente chi è colui che parla, così come noi. Ci ha resi ciechi con loro in questo.
Spesso ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca
In assoluto il mio personaggio preferito, forse il migliore anche oggettivamente, è la moglie dell’oculista. La sua presenza è stata come un miracolo di Natale. Le loro vite sarebbero state ancora più complicate senza di lei. Non si sa il motivo per i quale sia stata scelta lei per questo ruolo, ma qualunque esso sia, è stato un bene. Era la loro guida, i loro occhi. Ebbene sì, questa donna, molto coraggiosa, non era stata contagiata, ma pur di stare col marito finse di esserlo. Forse per questo motivo sono stati risparmiati i suoi occhi, è stata l’unica, in tutta l’epidemia, ad offrirsi in pasto ai lupi. Questa donna, ha dimostrato di valere oro, di essere capace di compiere qualsiasi atto per salvare il suo gruppo. Amici, oserei definirli. È ciò che diventarono. L’amicizia ha sempre un potere che va oltre il tutto. È stupefacente la creatività dello scrittore portoghese: è riuscito ad unire così tanti temi importanti, forti, delicati, ma anche quelli più semplici, quotidiani in solo romanzo. Non è difficile sorprendersi alla notizia dell’acquisizione del Premio Nobel per la letteratura da parte di Saramago.
Per poter arrivare dove si vuole, tutto dipende da dove ci si trova.
José de Sousa Saramago (Azinhaga, 16 novembre 1922- Tías 18 giugno 2010)si trasferì a Lisbona con la famiglia in giovane età, abbandonando gli studi universitari per difficoltà economiche, mantenendosi con i lavori più diversi. Ha infatti lavorato come fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi stabilmente in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione.

Le parole sono il suo pane quotidiano: fra libri, serie tv, film e il suo scrivere racconti passa le giornate. È amante delle piccole cose, dei gatti, e ammira chi dal niente riesce a trarre di tutto. Il suo ispiratore maggiore è Albert Einstein, infatti condividono la stessa filosofia di vita: ‘La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto’, ‘Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido’, ‘La creatività è contagiosa. Trasmettila!’