
thriller
Fazi Editore
17 giugno 2021
cartaceo, ebook
300

Tra gli alti palazzi del Corviale, alla periferia di Roma, la vita è grigia come il cemento che ricopre i suoi edifici. Elia Desideri è un piccolo commerciante che cerca di tirare avanti come può, mentre suo figlio viene risucchiato dalle false promesse della banda del quartiere, chiamato volgarmente "Serpentone". Uomo amareggiato e scontroso, Elia si scaglia spesso contro gli immigrati che vivono attorno a lui. Quando uno di questi viene ritrovato morto, Elia diventa immediatamente il principale sospettato. Eppure, l'uomo giura di essere innocente e chiede aiuto a Gordiani.
Destreggiandosi abilmente fra bande criminali, procuratori inflessibili e amori mai sopiti, in questo incalzante romanzo, Alessandro Gordiani si ritroverà alle prese con una situazione molto più complicata del previsto dove la verità si nasconde nel degrado e nelle abitudini di un quartiere pieno di rancore.
Una zona della capitale grigia e impenetrabile dove la violenza soffoca le buone intenzioni e la diversità è percepita come minaccia.
“Maledetti bastardi. Maledetti tutti, anche la gente per strada, quella che non diceva niente davanti allo schifo e al degrado dilagante e che ormai si era omologata al mondo globalizzato, con poche sporadiche eccezioni.”
Il romanzo di Michele Navarra si presenta con un titolo molto azzeccato ed evocativo, nel quale i due termini, “tana” e “serpente”, danno subito l’indicazione di quella che sarà la tensione e il fulcro della vicenda che, per inciso, viene narrata in terza persona, permettendo all’autore di esercitare un distacco “emotivo” dagli eventi.
È, infatti, nella tana, nascondiglio e covo, ma per traslato anche ambiente squallido e trasandato, che il serpente, per eccellenza simbolo del male e del peccato, trova ricovero e dove, nascosto, vive in attesa di mordere l’incauto, o forse l’ingenuo, che si trova a invadere il suo territorio. Ma in questo giallo, il serpente può essere riconosciuto anche nei demoni che abitano il cuore di alcuni personaggi; il cuore, dunque, come tana dell’animo afflitto da rabbia e delusione.
Il nucleo della vicenda, non a caso, si sviluppa intorno ad un luogo preciso, sullo sfondo di una Roma che, nella sua veste di Città Eterna, è signorilmente indifferente al degrado delle sue periferie e sembra ignorare consapevolmente la vita difficile che lì vi si conduce.

Le vicissitudini de “Nella tana del serpente” hanno luogo, dunque, in quello che, forse, è il simbolo del decadimento suburbano capitolino, ossia il complesso edilizio del Corviale, chiamato il Serpentone a causa della lunghezza del caseggiato stesso, ”Una stecca lunga un chilometro per nove piani di altezza.”
È qui che Elia Desideri ha trovato casa anni addietro con la moglie Antonella ed è qui che continua a vivere nel piccolo appartamento al terzo piano, concessogli dal Comune, “proprio sotto a quello che nelle intenzioni di Mario Fiorentino, avrebbe dovuto essere il piano riservato ai negozi e alle attività culturali” assieme ai due figli Luca, il maggiore, e Saverio il più piccolo.
Elia è, però, un uomo segnato dall’amarezza: in un primo momento, la sua vita sembrava avviata verso la piena felicità quando, innamoratissimo, si era sposato con Antonella per iniziare una nuova famiglia, investendo energie e denaro nel loro negozio di abbigliamento, punto di riferimento per la moda nel quartiere. Improvvisamente, poi, Elia ha visto crollare questo suo mondo e la possibilità di un futuro sereno: un male incurabile ha strappato Antonella dalla sua vita, lasciandolo solo a dover crescere i figli, con Luca che, piano piano, a seguito del trauma per la perdita della madre, si è avvicinato ai delinquenti del quartiere, per finire nel giro dallo spaccio di stupefacenti, con l’inevitabile arresto e l’etichetta di pregiudicato. Inoltre, con la morte di Antonella, la gestione del negozio è ricaduta tutta sulle spalle di Elia, in un momento di prostramento personale e di cambiamento epocale per il mercato. Le vendite, infatti, negli ultimi anni, sono calate inesorabilmente, tanto da portarlo ad un passo del fallimento, a causa dell’apertura di numerosi centri commerciali che hanno dirottato la clientela verso negozi più dozzinali.
Contemporaneamente a questa nuova situazione economica, a Corviale sono iniziati ad arrivare gli abusivi, i disperati che hanno occupato i piani degli edifici, fatto che ha reso Elia sempre più diffidente e chiuso in se stesso. La sua frustrazione sfocia, dunque, in un risentimento verso “gli altri”, quelli dalla pelle più scura, quelli che in Italia hanno cercato asilo, quelli che per vivere fanno del marciapiede davanti al suo negozio il posto per smerciare la loro pacchiana mercanzia. Vittime di questa “rabbia” sono tutti gli emigrati, ma, in particolare, Elia sembra prendere di mira la famiglia curda Bayazid, che abita nell’appartamento di fronte; una famiglia segnata da un passato doloroso, con una storia di fughe e difficoltà fino al passaggio su un barcone per raggiungere le coste italiane. Una traversata segnata da un naufragio e della perdita per Rashad, Halima e il figlio ventenne Nadir, del piccolo Omar, inghiottito dalle acque del Mediterraneo.
L’avversione di Elia per quelli che lui vede come la causa del suo mal stare sfocia in modo più evidente quando Saverio ritorna a casa con un occhio pesto. Artefice dell’aggressione è Nadir, cosa che fa infuriare Elia, il quale minaccia il giovane davanti a molti testimoni.
Più tardi, in un garage delle vicinanze, viene ritrovato il corpo senza vita di Nadir; per gli inquirenti è evidente che si tratta di omicidio e il sospettato è uno solo: Elia.
La bellezza del racconto cresce a mano a mano che la vicenda si dipana attraverso due lavori investigativi paralleli, che definiscono la struttura narrativa e che sono portati avanti da due figure fondamentali del romanzo.
Da una parte ci sono le indagini ufficiali dei Carabinieri della Compagnia Roma Eur, con a capo il giovane Maggiore, Andrea Gavazzo, affiancato dall’esperto Maresciallo Cipriani, dall’altro c’è il lavoro dell’avvocato di Elia, Alessandro Gordiani. Entrambe le “indagini”, pur partendo da presupposti diversi, giungono, ognuna per strade parallele, alla conclusione del caso, regalando al romanzo un doppio percorso “investigativo” che arricchisce di umanità e di passione il lavoro sia poliziesco che giudiziario. Se l’esperto Maresciallo mette in campo la sua esperienza e l’acume tipico di chi ha la perseveranza di seguire le tracce ed addentrarsi nelle possibili piste per risolvere il caso, mentre il Maggiore cerca di mediare l’ottusità del Pubblico Ministero Lizzardi, l’avvocato Alessandro Gordiani rappresenta l’uomo di legge che sa bilanciare umanità e legislazione, riuscendo a fare chiarezza e ad assicurare al proprio cliente la miglior difesa possibile.
È proprio l’avvocato uno dei personaggi che fanno de “Nella tana del serpente”, non solo un thriller, ma anche una vicenda umana su cui riflettere. Alessandro Gordiani è un uomo che potremmo definire tutto d’un pezzo, che, però, rimane semplice e probo in tutti gli aspetti della vita non solo lavorativa, ma anche personale e sentimentale. Non a caso, il suo mezzo di trasporto è una vecchia Vespa, che necessita di continue riparazioni, ma che è, alla fine, il veicolo migliore per spostarsi nelle trafficate strade di Roma, quasi fosse una metafora del destreggiarsi dell’avvocato tra i sentimenti, le motivazioni e i rapporti con gli altri.
Proprio per la netta definizione piscologica e la capacità introspettiva e di riflessione di questo personaggio, come estratto del testo narrativo, propongo il seguente pezzo che, secondo me, rivela lo spessore dell’avvocato Gordiani. A parlare è, infatti, proprio lui:
“In verità, il colore della giustizia, caro signor Desideri, è il grigio, pur con tutte le sue sfumature”, disse fissandolo con intensità “Quel colore spento, opaco, di cenere e cemento, proprio come quello dei muri di Corviale, quel serpente nascosto dentro la sua gigantesca tana, in attesa di mordere e inoculare in qualcuno il suo veleno, dove lei vive da tanti anni e dove vivrà probabilmente fino alla fine dei suoi giorni… E lei sa forse meglio di chiunque altro il significato esatto delle mie parole… Sì, il colore della giustizia è proprio il grigio, nonostante quello che alle persone perbene piace pensare, perché una sentenza non potrà mai fare del tutto giustizia, perché ci sarà sempre una delle parti che rimarrà scontenta, delusa, insoddisfatta e che, con l’intima e granitica convinzione di essere nel giusto, si sentirà in diritto di urlare al mondo intero che in quel caso giustizia non è stata fatta, che la giustizia ha tutt’altro che trionfato, che sarebbe stato molto più giusto se il giudice, la Corte o chi per loro avessero deciso in modo differente… E non è affatto detto che non abbiano ragione a lamentarsi, perché spesso, troppo spesso, anche applicare la legge in modo corretto non significa necessariamente fare giustizia, dato che questi concetti quasi mai sono sovrapponibili.”
Decisamente una riflessione che condivido e che, come anche tutta la storia narrata, ho percepito come radicata nel reale.